L’altro giorno in ufficio ho assistito alla presentazione di un collega che ha parlato di “Capitale Umano”, ovvero la capacità di generare ricchezza attraverso la propria conoscenza e competenza. In genere, quando valutiamo un patrimonio, guardiamo invariabilmente i numeri: capitale finanziario, liquidità, immobili, azioni… Ma è un po’ come misurare la bellezza di una canzone contando solo le note: ci perdiamo l’armonia, l’emozione, l’impatto che ha su chi la ascolta.
Questa riflessione mi ha portato ad iniziare a guardare alcuni Clienti ed imprenditori che conosco con occhi diversi.
Penso a Adriano Olivetti, che negli anni ’50 trasformò Ivrea non solo in un polo industriale, ma in un laboratorio di innovazione sociale. Il suo patrimonio finanziario era significativo, ma il suo patrimonio culturale ha attraversato decenni e ancora oggi i manager formati nella “scuola Olivetti” applicano principi di umanesimo industriale in aziende di tutto il mondo.
O Renzo Piano, che non ha solo progettato edifici iconici, ma ha formato generazioni di architetti che portano avanti la sua filosofia del “pezzo per pezzo”. Il Centre Pompidou o lo Shard sono patrimonio tangibile, ma l’approccio metodologico che ha trasmesso ai suoi collaboratori è patrimonio intangibile in continua espansione.
Oppure ricordiamo il caso di Patagonia, l’azienda di abbigliamento outdoor. Il suo fondatore Yvon Chouinard ha donato l’intera azienda (valore: 3 miliardi di dollari) per la lotta ai cambiamenti climatici. Una mossa che potrebbe sembrare folle dal punto di vista finanziario tradizionale. Ma Chouinard ha capito che il suo vero patrimonio non era l’azienda in sé, bensì l’impatto che quella scelta avrebbe avuto: ispirare una generazione di imprenditori a ripensare il rapporto tra business e responsabilità sociale.
O, più recentemente, la mega-donazione di Bill Gates (200 miliardi di dollari) per lo sviluppo dell’Africa. Gates ha compreso che investire nella formazione, nella sanità e nell’innovazione tecnologica di un intero continente non rappresenta solo un atto filantropico, ma la creazione di un ecosistema di competenze e opportunità che si auto-alimenta nel tempo. È patrimonio generativo su scala continentale.
La matematica del patrimonio tradizionale è lineare: accumuli, conservi, trasferisci. La matematica del patrimonio generativo è esponenziale: trasmetti conoscenza che si moltiplica, crei valori che si diffondono, costruisci relazioni che generano nuove opportunità. Questa distinzione diventa cruciale quando parliamo di successione aziendale: troppe aziende familiari, soprattutto nel nostro territorio del Nord-Ovest, muoiono perché la transizione si concentra solo sui beni materiali, ignorando completamente il patrimonio intangibile. È come consegnare a qualcuno le chiavi di una Ferrari senza insegnargli a guidare.
Nella global economy di oggi – di oggi, non di domani – non basta essere bravi, bisogna anche saper spiegare agli altri perché si è bravi e investire tempo e energia nella crescita delle persone che ci circondano, vedendole come moltiplicatori del nostro impatto.
Ma c’è un paradosso interessante: più cerchi di accumulare patrimonio tradizionale, più rischi di erodere quello generativo: l’ossessione per il risultato a breve termine spesso sacrifica investimenti in formazione, relazioni, innovazione sociale e si manifesta la trappola della ricchezza autoreferenziale, ovvero, più accumuli per te stesso, meno crei per gli altri.
Al contrario, chi investe consapevolmente in patrimonio generativo spesso vede crescere anche quello tradizionale. Non è altruismo, è strategia illuminata.
Guardando al futuro, credo che la distinzione tra questi due tipi di patrimonio diventerà sempre più evidente. La sfida per noi, che siamo cresciuti con metriche prevalentemente finanziarie, è imparare a misurare e valorizzare anche l’immateriale. Come quantifichi l’influenza positiva che hai avuto sulla carriera di un giovane collaboratore? Come valuti il contributo che la tua azienda ha dato alla crescita del territorio? Come misuri il valore delle competenze che hai diffuso nel tuo settore?
Forse è arrivato il momento di ripensare i nostri bilanci. Accanto ai numeri tradizionali, dovremmo iniziare a tracciare anche le persone formate, le competenze trasferite, l’impatto sociale generato, i valori trasmessi. Non per retorica, ma perché questi elementi rappresentano il vero differenziale competitivo nel lungo periodo. Se il patrimonio finanziario è come l’acqua – necessaria per la sopravvivenza ma che scorre via se non la trattieni – il patrimonio generativo è come i semi: piccoli investimenti che, piantati nel terreno giusto, possono dare frutti per generazioni.