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L’Intelligenza Artificiale e il futuro del lavoro

Il dibattito sull’impatto dell’intelligenza artificiale sul mondo del lavoro si è polarizzato in due fazioni apparentemente inconciliabili: da un lato, gli ottimisti tecnologici prevedono un’abbondanza di nuove opportunità occupazionali generate dall’innovazione. Dall’altro, i pessimisti intravedono all’orizzonte una sostituzione massiva che potrebbe eliminare oltre il 30% dei posti di lavoro attuali. Sam Altman, CEO di OpenAI, ha reso ancora più netto il dibattito dichiarando che l’IA sostituirà “aggressivamente” i ruoli lavorativi esistenti. Chi avrà ragione?

Per decifrare il futuro del lavoro nell’era dell’IA, vorrei partire da una considerazione fondamentale: ogni organizzazione “umana”, e il mondo del lavoro non fa eccezione, si basa strutturalmente sull’intelligenza. Il vantaggio competitivo delle imprese deriva in gran parte dall’acquisizione e dall’impiego di intelligenza specializzata, che per sua natura è scarsa e quindi economicamente preziosa.
La nostra stessa professione riflette questa dinamica: man mano che accumuliamo conoscenze, esperienza e competenze, il nostro valore economico aumenta e ogni nuova qualifica, ogni approfondimento tecnico, ogni insight strategico acquisito si traduce (potenzialmente) in promozioni, aumenti salariali o opportunità di lavoro presso concorrenti. In breve, l’intelligenza specializzata, che ai miei tempi era principalmente pseudo-garantita da un titolo di studio superiore, è sempre stata il fondamento del nostro sistema economico e della stratificazione sociale che ne derivava.

Ma cosa accade quando il valore economico dell’intelligenza, come oggi, tende verso lo zero? Questo è esattamente lo scenario che l’intelligenza artificiale sta iniziando a delineare: a breve, molti “cervelli” altamente specializzati potrebbero non essere più necessari perché non più in grado di generare valore economico. Forse non abbiamo ancora compreso appieno la portata o l’imminenza di questa trasformazione, ma molte aziende stanno camminando verso uno scenario Nokia-Blockbuster-BlackBerry che si materializzerà inesorabilmente sotto i loro occhi nei prossimi due decenni, se non prima.

Panico totale? No, perché la tecnologia cambia rapidamente, ma la cultura aziendale evolve con una lentezza quasi geologica, soprattutto nelle grandi corporation, nei settori tradizionalmente conservatori come, ad esempio, l’automotive e nella pubblica amministrazione; e spesso l’adozione di nuove tecnologie segue tempistiche che risultano frustranti anche per gli innovatori più scettici e meno propensi al cambiamento – si veda il caso della digitalizzazione della scuola o della PA.

Ma paradossalmente è proprio l’attuale periodo di incertezza e turbolenza economica che potrebbe accelerare questo processo. Le pressioni sui costi, intensificate dalle condizioni macroeconomiche avverse, stanno spingendo le aziende verso un’adozione più rapida dell’IA come strumento di efficienza operativa. È il classico principio di azione-reazione che caratterizza i cicli economici: la necessità genera innovazione, l’innovazione genera cambiamento.

Ora, come abbiamo già visto in questo post, sarebbe un errore pensare che l’automazione possa sostituire completamente la componente umana del lavoro. Alcuni ruoli professionali sono troppo basati sulle  relazioni interpersonali e le persone continueranno a desiderare interazioni faccia a faccia quando sono necessarie compassione, comprensione profonda e quella forma di intelligenza emotiva che nessun algoritmo per ora sa replicare in modo convincente. Inoltre, gli esseri umani manterranno un ruolo fondamentale nella gestione delle funzioni tecniche dell’IA stessa perché qualcuno dovrà supervisionare, gestire e, soprattutto, assumersi la responsabilità delle prestazioni e dei problemi generati dai sistemi artificiali.

La strategia che ritengo più saggia per navigare questa transizione non è né l’ottimismo fine a se stesso né il pessimismo paralizzante, ma un atteggiamento di apertura mentale, determinazione e positività. Non dovremmo soffermarci su ciò che desideriamo che accada, ma concentrarci su ciò che sta effettivamente accadendo per continuare a lavorare con eccellenza, sviluppando competenze complementari all’IA piuttosto che sostituibili da essa, e per creare nuove opportunità basate sulla realtà emergente piuttosto che su nostalgie del passato.

Il futuro del lavoro non sarà determinato dall’intelligenza artificiale in sé, ma da come sapremo integrarla intelligentemente nelle nostre organizzazioni, preservando ciò che di unicamente umano può continuare a generare valore in un mondo sempre più automatizzato. La chiave del successo sta nella capacità di riconoscere questa distinzione e di agire di conseguenza perché la responsabilità legale, etica e operativa è e rimarrà sempre un territorio esclusivamente umano.

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